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giovedì 17 dicembre 2009

O M A G G I O A N U O R O

Continuano le escursioni cultural-ricreative organizzate dal Circolo Arci di Sardara. Dopo la visita, interessantissima, alla miniera di Serbariu, è stata la volta della città di Nuoro.


Prima tappa Museo del Costume. Se non tutti, almeno i più significativi e rappresentativi costumi della nostra isola, sono presenti in quello spazio piuttosto angusto per contenere tanta magnificenza. Un’orgia di tessuti, colori, ori che incantano e affascinano anche chi, come noi, è abituato alle sfilate folcloristiche, suggestive e coinvolgenti, che però non consentono di focalizzare i particolari, come invece è possibile nelle sale di un museo. I tanti "continentali" che si accalcano nelle sfilate di Sant’ Efisio e della Cavalcata, sanno che a Nuoro c’è il Museo del Costume?
La casa natale di Grazia Deledda non è molto distante. Una palazzina su tre livelli molto ben tenuta, che denota la sicura agiatezza degli antichi proprietari. Fa un certo effetto aggirarsi in quelle stanze che videro affaccendarsi la grande scrittrice premio Nobel per la letteratura. Molti pensieri corrono per la mente nell’osservare lo studiolo, non certamente sfarzoso, dove la scrittrice trascorse chissà quante ore a rimuginare i suoi capolavori. Più sontuoso lo studio romano della scrittrice diventata ormai celebre, che si può ammirare in un ambiente al piano terra. Piuttosto spartana anche la camera da letto. Una sedia, un tavolino con sopra penna e calamaio, al centro della stanza; addossato ad una parete un mobiletto-libreria, accanto un baule da viaggio per i libri. Nella parete di fronte un armadio guardaroba non particolarmente elaborato. Di fronte alla porta d’ingresso, in un angolo, la "toeletta" col suo bravo asciugamano, il catino e il grosso boccale in ferro smaltato, lo specchio. Dalla parte opposta con la testiera a motivi floreali, come usava intorno ad un secolo fa, in ferro e lamierino, il letto. Mi fermo un attimo a riflettere. Vedo la nostra, insonne, rigirarsi senza posa in cerca della forma migliore per fissare, per sempre, i suoi pensieri e lasciarli ai posteri. Efis di Canne al vento, Cosima, Marianna Sirca, Elias Portolu pur essendo stati scritti dopo il trasferimento a Roma, probabilmente hanno avuto la gestazione in quelle notti tormentate. Siccome non si vive di solo spirito, ecco la cucina con al centro "su foxibi" sovrastato da "sa taba" con i formaggi. Ma ecco soprattutto la dispensa, alloggiata nella IV Sala. Sempre chiusa a chiave, scrive la Deledda, custodiva le provviste per l’intera "comunità". Un enorme "caisteddu" con il grano per la confezione del pane bianco per la famiglia; un altro con l’orzo per quello destinato alla servitù e ai lavoranti stagionali. E poi fave, ceci, fagioli, piselli, lenticchie, mandorle, castagne, noci e nocciole. Dalle canne, legate alle travi del soffitto, pendono grappoli d’uva, corone di fichi secchi, pere, mele. Su di un tavolo, abbastanza grande per contenere tanto ben di Dio, fanno bella mostra di sé "mustebas", pancette arrotolate e una gran quantità di "crentexabis" (grandi rettangoli di lardo salato) che costituivano, assieme a patate e cipolle, il companatico per gran parte dell’anno dell’intera servitù. Salsicce, "granduas", le parti migliori della pancetta debitamente pepate per la conservazione (assieme a "is mustebas"), avevano probabilmente altra destinazione. Si è fatto tardi, non c’è tempo nemmeno per una fugace visita alla chiesetta della Solitudine: ci attendono ad Orgosolo per il pranzo sociale.
Nell’angolo degli arrosti, assieme ai proprietari, un volto noto: Graziano Mesina. Ci dà il benvenuto, resta a pranzo con noi. Il caso ha voluto, essendomi attardato con il gestore, che l’unico posto ancora libero, in fondo al tavolo, fosse quello di fronte a Mesina. Una sana diffidenza
reciproca rende guardinga la conversazione. Si sta sul leggero: la bontà del prosciutto, il buon vino di Orgosolo, le meravigliose bianche pareti rocciose del Supramonte che si stagliano nel riquadro della finestra di fronte a noi. Chiedo di un nostro compaesano da sempre residente ad Orgosolo. "No, non lo conosco. Cosa vuoi, sono mancato 40 anni e più dal paese". "Lunghi !" dico. "Lunghissimi. Penso di aver pagato il mio debito con la società". Il ghiaccio è rotto. Affiorano probabili letture dei duri anni di carcere: "Hanno sempre approfittato di noi, puntando sulla nostra scarsa capacità di unione, di fare blocco unico. Ci hanno sempre sfruttato, tutti: governanti, chiesa e tutti quelli che detengono un qualche potere. Capito ! "Capito. Ma non so, e non chiedo, se parlasse di noi sardi o di noi classi subalterne in generale. "Sono tempi brutti -continua- soprattutto per i giovani. Per loro ci sono poche prospettive, non c’è sicurezza. Ho paura che sarà sempre peggio. Il fatto è che sono stati abituati ad avere molto con poco impegno. I genitori li hanno viziati e adesso è dura rimetterli in carreggiata". – "Spetta a noi adulti, alle persone come te che su di loro hanno un certo ascendente, fare i convincenti maestri" intervengo. "Io ci provo. Sai quante mamme vengono a lamentarsi e a chiedermi di intervenire sui loro figlioli quando combinano, piuttosto frequentemente, delle fesserie? Intervengo, ci parlo a quattr’occhi, spiego, consiglio … e se non basta minaccio di passare alle vie di fatto . Capito ! Io non ho paura di affrontare situazioni difficili". Qui il pedagogo cede il passo all’antico balente . " Forse sono loro ad avere paura. I giovani sono molto insicuri " dico . " Hai ragione. I giovani sono molto paurosi. Mi capita spesso di accompagnare comitive nel Supramonte, e noto chiaramente che preferiscono restare in gruppo, hanno paura di allontanarsi, di camminare da soli in mezzo alla natura. Hanno coraggio solo nel branco, non riescono a sopportare la solitudine. Nel 1956, anno della grande nevicata, sono rimasto isolato in montagna, da solo, per oltre un mese. Avevo 14 anni. Io so che cosa è la solitudine. Ci devi convivere. Altrimenti impazzisci. Ma quella è un’altra solitudine". Di proposito ho evitato di parlare di politica: la curiosità era tanta, ma forse è stato meglio.
Luigi Melis

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