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mercoledì 23 dicembre 2009

I giovani, il lavoro, la politica.


Curiosando qua e là su NOVAS mi sono trovato a leggere per la seconda volta l’articolo del mio giovane amico Roberto Ibba “babbo…mi hai tradito?” e stavolta decido di dire la mia, seppure con qualche ritardo, su un argomento di così grande e, per certi aspetti, drammatica attualità.


Di quello scritto ho apprezzato il linguaggio chiaro, la rappresentazione efficace dei problemi del mondo dei giovani, oltre agli ammirevoli propositi e lo slancio tipicamente giovanile di chi si vuole impegnare per un futuro migliore con la consapevolezza che nessuno ti regala niente, neppure la ‘generazione dei padri’.
Quelle sue riflessioni mi sono sembrate già note, come se stessi ascoltando l’eco lontano di miei antichi pensieri. E non solo miei, ma di tanti giovani (ora ex giovani) che hanno scrutato il proprio orizzonte cercando di indovinare cosa vi fosse oltre il visibile.
E, in effetti, pensieri simili ricordo di averli fatti anch’io quando, negli anni ’70, dovetti emigrare all’estero per fare le prime esperienze di lavoro.
Deve averli fatti anche mio padre quando, per fuggire dall’estrema povertà della Sardegna degli anni ’50, emigrò verso la Francia più ricca e industriale.
Qualcosa del genere deve aver pensato mio nonno che, dopo aver combattuto sull’altopiano di Asiago durante la prima guerra mondiale anch’egli, negli anni ’30, andò a lavorare in Francia in una miniera di carbone.
Di mio bisnonno non ho notizie, ma a lui potrebbe essergli stata preclusa perfino la possibilità di emigrare, oppure potrebbe essere stato uno dei tanti che si metteva in marcia per raggiungere (a piedi) le miniere di Buggerru, Serbariu, Monteponi, per tornare a casa dopo mesi o anni...o mai più…
Quei giovani non si limitarono ad apprendere nuove arti e mestieri, ed ebbero modo di acquisire qualcosa di ben più importante, fino ad allora vagheggiata ma ancora ignota ai più, ossia una nuova coscienza di classe. Poterono sperimentare la forza dell’organizzazione di Sindacati e Partiti e scoprirono che con essi si potevano conquistare e difendere i diritti fondamentali del lavoro, ottenere delle tutele in caso di malattia, di disoccupazione, di infortunio, di vecchiaia, e che si poteva lottare per i diritti civili. In questo modo essi capirono che anche gli ultimi, quelli che erano i lavoratori diseredati e senza voce, potevano contribuire alla edificazione di un mondo migliore.
E’ innegabile che il sacrificio e le lotte di quei giovani abbiano contribuito in modo decisivo a consegnare ai giovani di oggi una società migliore, con innumerevoli problemi ancora irrisolti, ma certamente più prospera ed in grado di offrire più opportunità a tutti, perché maggiore è la ricchezza, il grado di istruzione dei cittadini, migliore è la sanità pubblica, più solide le istituzioni democratiche.
Ieri e oggi. Tempi e realtà molto diverse, non c’è dubbio.
E’ sufficiente considerare le diverse congiunture economiche tra i due dopo-guerra, di espansione, e quella odierna, di recessione, al diverso livello culturale e di conoscenza, per considerare ogni paragone tra i giovani di ieri e quelli di oggi perlomeno azzardato. Ma vale la pena di provarci.
La prima impressione è che i giovani, oggi, sottovalutino le proprie reali capacità e potenzialità atte a modificare una realtà che non gli piace, quella società nella quale trovano enormi difficoltà ad affermarsi, sia nel mondo del lavoro che della politica, ma non solo. Spazi che essi potrebbero conquistarsi con un impegno diretto e incisivo.
Perché accade? Forse perché, data l’epoca in cui essi sono nati e vivono, mancano di termini di confronto, appunto, ‘vissuti’?
Provo a spiegarmi meglio. I giovani di ieri hanno potuto confrontare, perché li hanno vissuti entrambi, periodi di reale povertà e di quasi-assenza di diritti con una nuova epoca più prospera e più libera ed hanno potuto constatare il mutare delle proprie condizioni di vita e di lavoro grazie ad un loro impegno diretto. La società cambiava con loro e grazie a loro in modo palpabile, concreto, essi si sentivano giustamente protagonisti di quei cambiamenti ed avevano la certezza, le prove, che una società più giusta si potesse realizzare.
La più alta espressione di quell’impegno e di quei cambiamenti fu incarnata da uomini di grande levatura morale che dedicarono la propria vita per migliorare le condizioni del lavoro e dei lavoratori, prima che i termini comunismo e socialismo perdessero del tutto il significato delle origini che era di emancipazione, di giustizia sociale, di una società di uguali. Uguali almeno nelle opportunità e nei diritti.
Uno di questi uomini, uno dei tanti, è recentemente scomparso: Gino Giugni, socialista, padre di quella carta dei diritti, lo Statuto dei Lavoratori, che ha significato, forse, l’apice delle conquiste legislative in materia lavoristica. Erano norme che vietavano di licenziare se non per giusta causa o per un giustificato motivo, ed erano tempi in cui le assunzioni con un contratto a tempo determinato erano un’eccezione mentre quelle con un contratto a tempo indeterminato erano la regola.
Quello fu il risultato di anni di grande fermento civile e sociale ricordati come ‘autunno caldo’…Anni di contestazione giovanile, di partecipazione, di spontaneità, di straordinaria presa di coscienza il cui motore pulsante erano appunto i giovani studenti. Erano gli anni ’70.
Erano anni, come ha ricordato Roberto, in cui anche i giovani operai potevano programmare il proprio futuro, costruirsi la casa, formare una famiglia, crescere dei figli.
Dunque, per tornare ai giovani di oggi, essi hanno letto e studiato molto, conoscono la storia dei padri e dei nonni, ma sono lontani dal possedere la loro stessa tensione ideale e le stesse motivazioni. Inoltre possiedono una scala di valori necessariamente diversa da quella di ieri, anche se non sempre chiara e definita. Perciò non è secondario interrogarsi, tra le altre cose, sul come è composta la scala dei valori oggi e con quale ordine di priorità. Prima il denaro? La fama? Il potere? La famiglia? L’amicizia? Un lavoro stabile e gratificante? L’impegno sociale e politico? Non è chiaro.
L’impressione, abbastanza netta, è che non convinca più l’idea che l’impegno, il sacrificio e la partecipazione siano valori positivi primari e che essi possano effettivamente cambiare la realtà delle cose.
Ecco, una ‘colpa’ dei padri (se si può definire colpa), forse troppo protettivi e apprensivi, potrebbe essere proprio quella di non aver saputo trasmettere i valori dell’autodeterminazione del proprio futuro ai figli, forse troppo coccolati? E’ possibile.
Ogni tanto si ascolta qualche commentatore porre la questione come una contrapposizione tra generazioni, con argomentazioni che lasciano il dubbio di un uso strumentale di certe opinioni, volte più che altro a distogliere l’opinione pubblica da altri problemi, così da far credere che i padri abbiano ‘consumato’ anche il futuro dei propri figli, lasciando in eredità debiti, un sistema pensionistico penalizzante per le future generazioni, ecc. Tutti fatti che, di per sé, dovrebbero giustificare i sacrifici che vengono richiesti alle nuove generazioni in termini di una riduzione generalizzata dei diritti. Si tratta quasi sempre di un modo distorto, ingannevole e troppo semplicistico di rappresentare la realtà, e perciò da rifiutare.
Tuttavia Roberto non usa la parola ‘tradimento’ a casaccio e credo anch’io che essa abbia un senso compiuto in questo contesto. E non a caso egli cita gli ‘antichi’ compagni che facevano la rivoluzione e che oggi vestono in doppio petto senza il più pallido ricordo delle tante battaglie combattute.
Anche questa è un’impressione che abbiamo avuto in tanti e che in tanti è rimasta, me compreso, e cioè che forse troppo in fretta e acriticamente essi hanno finito per abbracciare le teorie neoliberiste, con un riformismo alla rovescia, accettando nei fatti una involuzione dei diritti dei lavoratori, con tutte le conseguenze nefaste per un’intera generazione. Una revisione, e questa è storia recente, messa in cantiere anche da uomini di centro-sinistra come Tiziano Treu, Marco Biagi, Massimo d’Antona, Pietro Ichino e lo stesso Gino Giugni dei tempi più recenti.
Teorie che si sono affermate con il pretesto della competitività, della globalizzazione, delle moderne tecnologie e come conseguenza di una evoluzione sociale che pretendeva una nuova organizzazione del lavoro ed esigeva il riformismo. Ma c’è riformismo e riformismo. E nel nostro Paese esistono enormi spazi ancora da conquistare in campo legislativo per attenuare le ripercussioni sulla disoccupazione, sulla precarietà, sui diritti, sui giovani.
E lo dimostra il fatto che altri Paesi hanno saputo fare meglio di altri, accompagnando alla flessibilità adeguate forme di tutela e severe norme di repressione degli abusi.
Un esempio tra i tanti, per rendere l’idea. In Francia si fanno gli stage post-laurea come in Italia ma la Legge prevede un compenso minimo di 380 euro mensili, l’obbligo dei versamenti contributivi e, in ogni caso, per periodi definiti e limitati di durata dopo la laurea.
Da noi è tutta un’altra storia e i giovani laureati lo sanno bene, purtroppo.
E infatti l’Italia è uno dei Paesi in cui si è teorizzata, e messa in pratica, la flessibilità più estrema, resa possibile da Leggi cui il centro-sinistra non è del tutto estraneo, norme che hanno permesso che oggi avvengano distorsioni ed abusi, più spesso nei confronti dei giovani.
Sembra essere prevalsa la logica che vuole i diritti di chi lavora (i salari, l’orario di lavoro, le modalità di assunzione e di svolgimento del rapporto di lavoro) al secondo posto dopo la produttività, la competizione, il fatturato. Non più la persona ‘al centro’.. non più al primo posto la qualità del lavoro, la sicurezza, la salute, il tempo libero, in una parola la vita delle persone…
Si, perché il lavoro ha, dovrebbe avere, una sua ‘sacralità’, nel senso che oltre al reddito che ci permette di vivere dignitosamente, ci fa sentire utili al consorzio umano, dà un senso alla nostra esistenza e la rende più libera. A me piace ancora pensare al lavoro come è nella concezione umanistica, per la quale ‘il lavoro ‘è il principale mezzo con cui l’essere umano diventa se stesso’, come anche di una certa concezione cristiana (perché no?) che mette il lavoro al centro della vita individuale come segno della predilezione divina.
Questo nuovo ‘credo’, questo cambiamento di orizzonte ha implicazioni enormi e contiene, nel senso che ne è la causa, i problemi lamentati dai giovani di oggi, travolti dalla precarietà e da un grande senso di insicurezza. E c’è da chiedersi quanti siano rimasti, oggi, a credere che i lavoratori non sono più meri utensili in carne e ossa, come li definì Aristotele, e come li vuole oggi il capitalismo contemporaneo. Così come ci si è scordati dell’immenso valore etico, morale e politico di una società che si sforza di realizzare la condizione di ‘piena occupazione’.
A causa delle politiche del lavoro messe in atto (o inattuate, dipende dai punti di vista), l’Italia sembra incapace di ‘creare lavoro’ mentre si dimostra ancora capace di produrre ricchezza. Il nostro Paese riesce a spendere solo il 23% delle risorse comunitarie destinabili alla creazione di nuovi posti di lavoro anche per colpa di una macchina statale poco efficiente, comprese le Regioni, le Province ed i Comuni, ed è fanalino di coda quando si parla delle norme a protezione contro la disoccupazione involontaria, i cosiddetti ammortizzatori sociali.
Sono tutti temi che meritano ben altro spazio e approfondimento ma, intanto, ci pongono qualche interrogativo che, almeno per quanto mi riguarda, contiene risposta e proposta, e cioè ...
Quanti di quelli spazi lasciati liberi da politiche sociali incomplete o fatte male, possono essere riempiti da proposte nuove e moderne con le idee dei giovani di oggi? Meglio, sono essi capaci di contribuire all’affermazione di politiche idonee a modificare questa società così imperfetta?
Sono ovviamente convinto di si, perché i giovani di oggi sono colti e preparati, conoscono il mondo e sono consapevoli dei problemi della nostra epoca.
Alcuni di essi, tra questi Roberto Ibba, mi pare, si sono già rimboccati le maniche, ed è quanto basta, per adesso, per guardare al futuro di tutti noi con un po’ più di fiducia.
Roberto Montisci

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