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lunedì 27 settembre 2010

Conti sballati e deboli svantaggiati

Amministrare un ente locale non è mai stato semplice. E’ infatti compito degli amministratori individuare le priorità del paese e adeguare la programmazione sulla base di queste.
Questo è il difficile compito della Politica: scegliere quali obiettivi e quali bisogni soddisfare in modo prioritario rispetto ad altri seppur meritevoli di attenzione. Ma come in tutte le famiglie il cui reddito disponibile non è mai sufficiente, occorre programmare bene le entrate e di conseguenza le spese. A maggior ragione se vengono utilizzati soldi pubblici, cioè di tutti. E a maggior ragione se i soldi di tutti sono pochi.
Nella predisposizione dei documenti contabili si traducono quindi le priorità individuate dall’amministrazione comunale, compatibilmente con le risorse a disposizione.

Ogni anno i comuni approvano il bilancio di previsione, in cui vengono previste le entrate e le spese future, soddisfando degli equilibri interni dettati dalla normativa. Senza addentrarci troppo nei tecnicismi, possiamo affermare che il bilancio deve essere in pareggio. Ossia spendo nella misura in cui guadagno. E’ chiaro a tutti che nel corso dell’anno si susseguono variazioni di entrata e di spesa rispetto a quanto previsto, ma l’equilibrio del bilancio (il pareggio) va sempre salvaguardato.

Una buona amministrazione va quindi valutata per la capacità di programmare e gestire i soldi pubblici nell’ambito delle competenze e delle risorse attribuite all’ente locale.
Dispiace constatare che a Sardara la situazione contabile è sfuggita un pochino di mano: nel corso dell’ultimo consiglio comunale la maggioranza ha dovuto coprire un disavanzo di bilancio, ossia un disequilibrio dei conti. Ovviamente subito ripianato, ma occorre spiegare il motivo che lo ha generato e le conseguenze per la cittadinanza.

In generale un disavanzo si crea in seguito al verificarsi di minori entrate rispetto a quelle previste, oppure di maggiori spese, o ancora per la copertura di spese straordinarie e pertanto imprevedibili. Succede in una famiglia, può succedere in un’amministrazione pubblica. Proprio per questo motivo chi amministra il paese ha grosse responsabilità. Ma cosa è successo a Sardara?

Innanzitutto alcune entrate non si sono verificate: sono stati programmati oltre 92.000 euro relativi alla concessione dell’albergo termale. Previsione errata: albergo chiuso, spendiamo ma non incassiamo. Si sono verificate poi maggiori spese legali legate ai contenziosi e maggiori spese relative alle utenze elettriche. E’chiaro che il tutto vada ripianato, ma chi paga una programmazione allegra? Probabilmente era necessario adottare maggiore prudenza durante l’anno riducendo al minimo alcune spese non obbligatorie, meno prioritarie rispetto ad altre. Questo è il nodo politico.

La copertura del disavanzo ha comportato infatti il taglio di alcuni capitoli di spesa dietro i quali ci sono i bisogni delle persone. Vediamone alcuni:
- spese a sostegno di alunni disabili Scuola elementare per 3000,00 euro;
- erogazione di sussidi diversi per 16.700,00 euro;
- manutenzione centro anziani per 11.400,00 euro;
- ma soprattutto nel corso del 2010 sono stati praticamente azzerati i fondi per i cantieri comunali (120.000,00 euro), che hanno da sempre rappresentato una boccata di ossigeno per i disoccupati di lunga durata iscritti all’ex ufficio di collocamento.

Purtroppo i tagli di settembre costano cari alle fasce più deboli della cittadinanza. Non si tratta semplicemente quindi di far quadrare i conti: dietro i numeri ci sono le persone. Buon senso avrebbe voluto che alcune spese fatte durante l’anno andassero evitate oppure ridotte.
Capisco benissimo che oggi occorre pagare gli avvocati e la luce dell’ENEL, ma avrei preferito qualche contributo in meno per associazioni, eventi o manifestazioni piuttosto che tagliare i servizi ai più svantaggiati. E per questi motivi abbiamo votato contro.

Peppe Garau Gruppo consiliare Partito Democratico per Sardara

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sabato 18 settembre 2010

UNA VENDITA STRANA E AVVENTATA

Pubblichiamo il volantino del Partito Democratico di Sardara relativo alla vendita del terreno alla
COS.VI.P Srl. http://www.novasdisardara.it/volantino_cosvip.pdf

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giovedì 16 settembre 2010

La piaga del lavoro irregolare. Perché succede?

Il lavoro irregolare (più conosciuto come ‘lavoro nero’) coincide con una prestazione d’opera da parte di un lavoratore al quale viene riconosciuta, in cambio, una retribuzione pattuita al di fuori di ogni previsione contrattuale (i contratti collettivi nazionali prevedono dei ‘minimi salariali’ e numerose altre garanzie).
Ma quel che è peggio è che egli, oltre a percepire una retribuzione più bassa, non è tutelato in caso di infortunio sul lavoro o di assenza per malattia, non vengono versati a suo favore i contributi assicurativi per la pensione e non avrà il diritto, al termine del rapporto di lavoro, ad una indennità di disoccupazione, di mobilità, di cassa integrazione, di maternità, ecc.
Perciò, oltre che guadagnare meno degli altri lavoratori, andrà più tardi in pensione e quando ci andrà percepirà una pensione ridotta, in caso di malattia dovrà assentarsi senza il diritto alla retribuzione e infine, se si infortuna, non avrà alcuna tutela e tornerà ad essere disoccupato, in molti casi con ridotta capacità lavorativa (a causa di possibili menomazioni permanenti).
Il fenomeno interessa la generalità dei lavoratori ma in modo particolare i giovani (perfino minori), le donne e gli extracomunitari. E’ maggiormente diffuso al Sud ma è presente in larga misura anche al Nord, seppure con cause e motivazioni differenti.
Oltre ai lavoratori, ad essere danneggiata è anche la libera concorrenza delle imprese.
E’ evidente che l’azienda che ricorre al lavoro nero ottiene dei risparmi nella gestione della propria impresa (riduce il costo del lavoro) e perciò potrà praticare dei prezzi più bassi quando venderà i beni o i servizi prodotti, causando in tal modo una situazione di concorrenza sleale.
Ne consegue che le imprese serie, per stare al passo, saranno obbligate (o almeno tentate) anch’esse ad abbassare il costo del lavoro, e la strada più facile e immediata è ancora quella del ricorso al lavoro ‘nero’. E così via in una spirale perversa e senza fine, nel solco dell’illegalità.
Inoltre vengono sottratte risorse al sistema previdenziale, con conseguenze negative per tutti i pensionati, quelli di oggi e soprattutto quelli di domani.
A fronte di questi comportamenti illegali (e immorali) a quali rischi va incontro l’imprenditore?
Intanto in caso di infortunio o di morte del lavoratore, il datore di lavoro (o il responsabile per la sicurezza da lui nominato) incorre in severe sanzioni penali e, in alcuni casi, è previsto anche il carcere.
Invece, in caso di verifica ispettiva con l’accertamento di lavoro irregolare, le sanzioni sono amministrative e possono ammontare a molte migliaia di euro (molto di più in caso di utilizzo di lavoratori extracomunitari clandestini o di sfruttamento del lavoro minorile).
Di conseguenza gli Uffici Finanziari, l’I.N.A.I.L., l’I.N.P.S., la Cassa Edile, ecc. procederanno per il recupero di quanto è stato evaso oltre alle sanzioni, gli interessi, ecc.
Tanti rischi a fronte di quali vantaggi? Quale è la posta in gioco?
Non c’è dubbio che spesso l’Azienda risparmia (anzi froda) parecchi soldi.
Ma, anche se può sembrare incredibile, in molti casi non ci guadagna nulla (o molto poco) e rischia moltissimo. Infatti, anche se la cosa sembra (apparentemente) inspiegabile, spesso gli imprenditori ricorrono al lavoro nero anche quando potrebbero beneficiare di importanti incentivi alle assunzioni e conseguire quasi le stesse economie ottenute con il ricorso al lavoro ‘nero’.
Intanto vediamo quali sono questi incentivi.
Ecco i principali.
L’impresa che assume un lavoratore a tempo indeterminato, disoccupato da almeno due anni, ha diritto alla esenzione totale dei contributi assicurativi fino a 36 mesi (nelle Regioni dell’ex obiettivo 1, Sardegna compresa).
In caso di assunzione di lavoratori in lista di mobilità, l’impresa non paga i contributi fino a quattro anni e, in caso di assunzione a tempo indeterminato riceverà un contributo economico pari all’importo dell’indennità che sarebbe spettata al lavoratore (se fosse rimasto disoccupato).
Un discorso analogo si applica per le aziende che assumono lavoratori in cassa integrazione o che usufruiscono degli ammortizzatori sociali ‘in deroga’.
Per i disoccupati che hanno fino a 32 anni e più di 50, è possibile la stipula di un “contratto di inserimento” (per un massimo di 36 mesi), con la riduzione della retribuzione e il pagamento dei contributi assicurativi pari a quelli degli apprendisti. Nelle Regioni con un alto tasso di disoccupazione femminile, Sardegna compresa, per le donne non è previsto alcun limite d’età.
L’apprendistato, il più ‘datato’ degli istituti contrattuali, è ancora il più utilizzato (e conveniente) dagli imprenditori. Possono essere assunti i giovani fino ai 30 anni per un periodo massimo di 6 anni (dipende dalla qualifica e dal contratto collettivo).
Nei primi anni la retribuzione sarà ridotta (rispetto alla retribuzione ‘piena’ di chi è qualificato) e i contributi assicurativi saranno corrisposti in misura percentuale, da un minimo del 1,5 % ad un massimo del 10% della retribuzione.
Esistono numerosi altri incentivi che favoriscono le assunzioni e che alleggeriscono gli oneri per i datori di lavoro (e che qui si omettono per ragioni di spazio).
In ogni caso i consulenti del lavoro sono bravissimi ad utilizzare le norme in vigore per ottenere ripetutamente (e legalmente) benefici, contributi e incentivi per molti anni per gli stessi lavoratori.
Ma allora perché ricorrere al lavoro nero anche quando non sembra giustificato da nulla, anzi quando tali comportamenti appaiono proprio da…sciocchi?
Il motivo sembra essere nei meccanismi che l’amministrazione finanziaria dello Stato ha posto in essere per scovare gli evasori fiscali. Infatti, esistono dei criteri che vengono applicati dagli Uffici delle Entrate per stabilire il volume d’affari ‘presunto’ da parte delle Aziende con l’applicazione di parametri che tengono conto anche (e soprattutto) del numero dei dipendenti. Quindi più dipendenti uguale (presumibilmente) più redditi, e più redditi uguale (certamente) più tasse….
Ne consegue che sarà interesse di intende evadere le tasse, dimostrare di avere pochi dipendenti per rendere più credibile la dichiarazione di un volume d’affari ‘ridotto’ rispetto al reale.
Da qui si capisce che gli interessi in gioco sono tali da giustificare il lavoro sommerso anche quando questo appare , in sé, completamente ingiustificato.
Per completezza c’è da dire che il ‘lavoro nero’ ha due facce.
La prima è quella che si presenta nelle Regioni più povere d’Italia, dove la necessità di ridurre il lavoro viene ‘giustificata’ da un tessuto economico più povero, con aziende in perenne difficoltà, che non riescono a far fronte ai maggiori costi dovuti a problemi locali che creano condizioni di svantaggio. Aree con una povertà diffusa, dove i livelli di disoccupazione sono tali da costringere i lavoratori ad accettare condizioni di lavoro e salariali ai limiti della sussistenza, con gravi conseguenze per la sicurezza, la qualità della vita e la dignità delle persone.
L’altra faccia del fenomeno è più evidente nelle Regioni più ricche del Nord.
Qui le cause del lavoro ‘nero’ sono in parte le stesse di quelle che si verificano al Sud, con alcune motivazioni aggiuntive con le quali si cerca (ancora) di ‘giustificare’ tali comportamenti, ossia la competitività, la globalizzazione, la insostenibilità del costo del lavoro, ecc.
Ma c’è una importante differenza che riguarda anche gli stessi lavoratori, rispetto a quelli del Sud: il fenomeno dei lavoratori con molta esperienza ed elevata professionalità che prestano la propria opera ‘in nero’ quando sono ormai pensionati (e non hanno alcun interesse a dichiarare il reddito perché si vedrebbero ridurre la pensione) oppure quando già svolgono regolare attività lavorativa con la Ditta ‘principale’ ma integrano il proprio reddito con un secondo e perfino un terzo lavoro. Un’altra particolarità riguarda la maggiore concentrazione di lavoratori extracomunitari, che subiscono più di altri le conseguenze del lavoro irregolare.
Insomma, due aree dell’Italia molto diverse ma con la stessa piaga. Una piaga che ha conseguenze nefaste per l’intera economia nazionale
Forse è inutile chiederci perché il fenomeno del lavoro nero sia così esteso, dal Nord al Sud dell’Italia, isole incluse, e per quale motivo non si riesca a contrastarlo efficacemente..
E sarebbe ipocrita non dare la risposa più ovvia, immediata e scontata: l’evasione conviene a tanti, anzi a tantissimi. Anche se non a tutti, ovviamente.
E gli unici a cui non conviene proprio, è evidente, sono quella parte più esposta e debole del mercato del lavoro, ossia quei lavoratori che non possono contare su altro reddito che quello che deriva dall’unico (e spesso precario) posto di lavoro dipendente.
r.m.

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venerdì 10 settembre 2010

Interrogazioni sulle spese correnti relative all'albergo termale.

Pubblichiamo l' interrogazione a risposta scritta, ai sensi del regolamento di funzionamento del consiglio - art. 11 comma 3 e comma 4 punto a - del gruppo consiliare del PARTITO DEMOCRATICO PER SARDARA sulle spese correnti (custodia e utenze) relative all’albergo termale. http://www.novasdisardara.it/interrogazione%20spese%20correnti%20albergo[1].pdf

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lunedì 6 settembre 2010

Lavori nella Stuttura Algergo Termale “S. M. Is Aquas”

Pubblichiamo l'interrogazione a risposta scritta del Gruppo consiliare PARTITO DEMOCRATICO PER SARDARA sui lavori in corso nella Stuttura Algergo Termale “S. M. Is Aquas”. http://www.novasdisardara.it/interrogazione_materiale.pdf

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IL CONTRATTO DI VENDITA DELL'AREA EDIFICABILE ALLE TERME

Pubblichiamo il testo del contratto di vendita dell'area edificabile comunale di S. M. Aquas in modo che ognuno possa farsi un'idea della questione. http://www.novasdisardara.it/alienazione_terreno.pdf

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mercoledì 1 settembre 2010

La riforma del voto chi ci sta, ma non impicchiamoci ad un modello

Pubblichiamo l'intervista a Pierluigi Bersani apparsa su la Repubblica del 31.08.2010. http://www.novasdisardara.it/articolo%20bersani.pdf

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TRES LIBBRUS PO S’ISTADI SARDARESA

Si è conclusa la rassegna "tres libbrus po s'istadi sardaresa" promossa dalla Pro Loco di Sardara nel cuore del bel centro storico così caro ai sardaresi.
Le presentazioni dei tre libri in sardo: Tres cummèdias sardas/Crònaca de una morti annuntziada (libro di G.G. Màrquez tradotto in sardo)/Sa losa de Osana, sono stati un ottimo successo di pubblico, tenuto anche conto del genere di manifestazione che non attrae mai orde di spettatori.
E' stata l'occasione per porre noi stessi al centro del nostro mondo attraverso letteratura e lìngua sarda troppo spesso dimenticate, tanto da essere quest’ultima ormai a rischio di estinzione.
Si è mostrato che i sardi sanno produrre non solo ottimi binu, pani, casu e sartitzu ma anche cultura che non è solo imitazione (spesso anche di ottima fattura, ma sempre imitazione), della cultura altrui. Basta scorrere l'elenco delle rassegne che animano feste ed eventi dei paesi dove il più delle volte non si cerca neanche di dar loro un tocco di originalità o di sardità: prese di peso e copiate nel più piccolo dei dettagli.
Si è anche detto che a tutt'oggi se i sardi sono ancora “pocos locos e malunidos” dipende molto da un sistema scolastico di educazione estraneo al territorio e che quasi a tutti i livelli nega la nostra specificità culturale fatta soprattutto di lingua e storia. Solo questi ultimi elementi possono portare alla formazione di una coscienza che ribalti quel brutto, ma purtroppo reale, luogo comune. Malgrado le leggi, non si vedono ancora concrete e decise inversioni di tendenza da parte di un'istituzione che in passato proibiva a suon di schiaffi e multe la nostra lingua, determinando verso di essa un senso di vergogna e repulsione che ha finito con il farci vergognare di noi stessi in quanto sardi. Il complesso di inferiorità culturale che ne è derivato e che in parte ci ha castrato anche politicamente forse può spiegare molto del nostro malessere economico.
La cosa non è di poco conto perchè senza coscienza di appartenenza continueremo ad essere sopraffatti culturalmente e quindi economicamente da un mondo sempre più globalizzato e dal quale saremo inghiottiti senza alcuna possibilità di appello, noi, ma soprattutto i nostri figli che continueranno l'esodo verso luoghi sempre più lontani lasciando il vuoto nella terra e nei cuori dei genitori che li hanno generati.
Naturalmente aspettiamo che la politica si svegli.
LE PRESENTAZIONI SONO STATE REGISTRATE E POSTE IN YOU TUBE/SITO BIBLIOTECA SAN GAVINO MONREALE
http://www.bibliotecadisangavino.net
Giampaolo Pisu

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Il paese che vorrei

Ho sempre pensato che il posto migliore in cui vivere è quello in cui già viviamo, e che per questo vale la pena di impegnarci giorno per giorno per migliorarlo.
Ma ci sono momenti in cui non si è più sicuri di niente, i propri convincimenti sembrano vacillare ed i pensieri volgono al pessimismo ed alla rassegnazione.
E’ con questi stati d’animo che in un torrido pomeriggio d’agosto osservavo, dalla strada che conduce a Santa Maria Acquas, le evoluzioni di aerei ed elicotteri che tentavano disperatamente di arginare le fiamme che stavano divorando il Monreale. Alla fine un’enorme distesa di cenere e di colline annerite. Un disastro. Ora, pensavo, ci vorranno decenni per riavere gli olivastri, i lentischi, i mirti e le querce nane che si stavano lentamente riprendendo (da altri incendi) e molti anni per ripopolare quell’area con la piccola fauna originaria.
A completare quel quadro di tristezza ho indugiato sull’albergo termale del Comune, muto testimone di quello scempio, tristemente chiuso, senza ospiti ne dipendenti.
Infine, al rientro, ho percorso le strade polverose del paese avendo cura di evitare le buche e le trincee aperte da mesi per interminabili lavori in corso, ai margini di piazze e marciapiedi sporchi e trascurati da settimane…
Mi chiedevo se le cose potevano essere diverse, se tutto ciò era inevitabile (e se il mio umore poteva essere diverso…).
Forse delle fasce antincendio più larghe di quelle esistenti ed altre nuove da realizzare potevano limitare i danni arrecati al Monreale e il fuoco non avrebbe percorso un’area così estesa. Forse un sistema di protezione civile meglio coordinato e capace di impiegare al meglio i mezzi e il personale di vari enti (Protezione Civile, Regione. Provincia, Comune). Forse un più efficace impiego dei volontari ai quali non può essere chiesto di improvvisarsi ‘pompieri’, e la cui azione, per essere efficace, andrebbe supportata da un minimo di addestramento.
Sono tanti i dubbi, anche perché tutti ci rendiamo conto di quanto sia difficile fare i conti con la furia di un incendio (e con la stoltezza degli incendiari).
In quanto all’albergo, ho qualche certezza in più. Certamente oggi sarebbe ancora aperto, con tanti ospiti e i dipendenti al lavoro, se solo fosse stata attuata una previdente programmazione amministrativa che avrebbe potuto dar luogo ad un cambio di gestione indolore.
Allo stesso modo, un’adeguata programmazione dei lavori pubblici avrebbe permesso di terminare i lavori prima dell’estate, in modo da non presentare le strade del paese nelle condizioni in cui ancora si trovano a visitatori, turisti, emigrati di ritorno per le vacanze.
Quanto ci è rimasto del ‘paese arancione’ di qualche anno fa? Facciamo ancora parte della ristretta cerchia dei paesi più ‘caratteristici’ della Sardegna? Chissà.
I casi citati ci dicono che spesso la sfortuna o le avversità non c’entrano (o c’entrano poco) e assume invece fondamentale importanza l’azione delle persone e delle Amministrazioni Pubbliche (di ogni livello) deputate allo svolgimento di determinati compiti, anche se bisogna riconoscere che le difficoltà esistono e che in molti casi chi amministra davvero non può fare di più.
Questo stato di cose potrà cambiare una volta che andrà ‘a regime’ la Legge che impone ai Comuni con meno di 5000 abitanti di associarsi o di formare delle Unioni di Comuni’?
Per meglio dire, il nostro Monreale sarà più protetto, le nostre strade più pulite, i lavori pubblici meglio programmati, i servizi pubblici resi più efficienti?
Ciò che accadrà per certo è che Comuni piccoli e piccolissimi dovranno delegare ad un organo sovra-comunale buona parte delle politiche locali.
Ma allontanare il centro politico-amministrativo non allontanerà un po’ anche i cittadini dalle istituzioni locali?
Il municipio è un riferimento anche fisico, concreto, a cui finora i cittadini hanno sempre guardato ed a cui si sono sempre rivolti.
Oggi, al contrario, è più che mai sentita l’esigenza di nuove forme di partecipazione e di ‘avvicinamento’ dei cittadini alle istituzioni e si rende necessario un rapporto più diretto tra amministratori e amministrati da cui scaturiscano nuove forme di responsabilità per entrambi.
Con la strada intrapresa si riuscirà forse a conseguire qualche risparmio. Ma siamo proprio sicuri che si tratti solo di un problema di riduzione della spesa? E se i problemi fossero di altra natura?
Vari Governi ci hanno abituato all’idea che si debba passare necessariamente attraverso una riduzione della spesa degli Enti Locali anche riducendo il numero e i compensi degli amministratori locali.
Ma prima ci si sarebbe dovuto chiedere se davvero il problema sia quello di far spendere meno agli enti locali o invece obbligarli (indurli) a spendere meglio.
Mi convince di più la seconda ipotesi e lo voglio spiegare con alcune cifre messe insieme guardando all’esperienza di altri Paesi (anche se qui mi limito ad uno solo).
Dopotutto, guardare a ciò che fanno gli altri è sempre un’occasione straordinaria per imparare (oltre che un atto di umiltà).
L’Italia ha circa 8.000 Comuni e 119.000 Consiglieri Comunali.
La Francia ha circa 37.000 Comuni e 500.000 Consiglieri Comunali.
L’Italia e la Francia hanno circa lo stesso numero di abitanti, circa 60 milioni.
La pressione fiscale pro-capite in Italia è di 7350 euro, quella Francese è di 7400 euro.
Ma la restituzione in termini di servizi pubblici ai cittadini è di 8023 euro in Italia mentre è di ben 10776 euro in Francia.
Cosa dicono queste cifre? Essenzialmente che esiste un forte divario di efficienza della macchina amministrativa dei due Paesi. E sono cose che si vedono e si possono apprezzare. Infatti in Francia (ma si può dire di tanti altri Paesi europei) la ‘cosa pubblica’ appare amministrata nel modo migliore.
Il verde pubblico è ben curato, le strade e le piazze ben tenute, i mezzi di trasporto efficienti, i servizi sociali e quelli sanitari sono all’avanguardia.
In Italia purtroppo non possiamo dire altrettanto, anche se ci sono alcune Regioni che riescono a fare meglio e si avvicinano a ‘standard’ più europei.
Insomma, non è la ‘quantità’ di spesa pubblica ciò che conta, ma il rapporto tra la spesa ed il ritorno in termini di servizi ai cittadini, in una parola dell’efficienza della spesa pubblica.
E’ chiaro (e giova ripeterlo), che meno spesa pubblica non significa più efficienza e che perciò l’attuazione della riforma del governo Berlusconi non potrà migliorare di molto le cose.
Si può dunque sostenere che spendere di più (ma bene) significa amministrare meglio?
Certo, purchè si accetti di ragionare sulla base di una diversa impostazione.
Ad esempio, se l’amministrazione pubblica spende bene i propri soldi e li finalizza a migliorare il paese, per prima cosa migliora la qualità della vita di chi ci vive. Se poi non si limita ad abbellirlo ma anche a creare strutture per l’accoglienza, lo sport, il tempo libero e gli spazi culturali, sta facendo un investimento che, se fatto con oculatezza, avrà un ritorno in termini di visitatori, turisti e potrà essere di stimolo per l’insieme delle attività produttive (il commercio, l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato), contribuendo a creare sviluppo e occupazione. Una comunità più ricca, a sua volta, potrà contribuire (anche finanziariamente) ad un ulteriore miglioramento del paese. Insomma una politica lungimirante capace di avviare un circolo virtuoso che si autoalimenta.
Ma è così difficile intraprendere questa strada? Si e no, dipende.
Solo una comunità partecipe e motivata può riuscirci, a cominciare ovviamente dai propri amministratori.. Una comunità che ‘si vuole bene’, che crede nelle proprie potenzialità e che fa buon uso della propria autodeterminazione, deve riuscirci. Innanzitutto con il confronto e la discussione. Sul centro storico e lo sviluppo urbanistico, sulla cultura, lo sport, i servizi sociali, le opere pubbliche, il verde pubblico.
Si rende però necessario un approccio nuovo da parte di tutti noi, che si può sintetizzare così (con una frase presa a prestito): ‘sarebbe bene che non ci chiedessimo tutti cosa il proprio Paese può fare per noi, ma cosa ognuno di noi può fare per il proprio Paese’.
E’ un concetto che possiamo adattare alla nostra piccola realtà locale.
Capita a tutti di pensare al paese in cui si vive e di pensarlo come idealmente lo vorrebbe.
Se qualcuno mi chiedesse di fare un elenco delle cose più importanti di cui necessita il mio paese, non comincerei con un elenco di opere pubbliche o la richiesta di nuovi finanziamenti (servono anche quelli).
Chiederei che si affermi prima di ogni cosa una nuova consapevolezza, una nuova cultura e coscienza della ‘cosa pubblica’, l’idea che ciò che è di tutti appartiene in piccola parte anche a ciascuno di noi, perché siamo noi tutti, con il nostro lavoro e con i nostri soldi di cittadini e di contribuenti, ad aver reso possibile che la ‘cosa pubblica’ esista e della quale, proprio per questo, dobbiamo essere i più gelosi custodi..
Ma anche il motivo per cui non può esserci indifferenza e tantomeno rassegnazione, davanti alla distruzione di un incendio e alle mille cose che non vanno bene e che vorremmo cambiare.
roberto montisci

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