Lui se ne uscì con questa affermazione: “Bisogna voler bene al Partito Democratico”.
Mi sembrava difficile immaginare di voler bene a un partito: si possono voler bene delle persone, degli animali, e in alcuni casi perfino degli oggetti. Ma un partito politico?
Come si poteva voler bene a un partito che era sotto una guerra di bande? Che con il voto disgiunto ha contribuito all’affondamento della migliore esperienza di governo riformista degli ultimi dieci anni in Italia? Che riciclava la propria classe dirigente senza neppure fare la raccolta differenziata?
No. Non si poteva voler bene a quel tipo di partito.
È passato un anno e la situazione non mi pare di certo migliorata. Ora abbiamo un governo regionale e nazionale di centro-destra. Una crisi economica da cui si stenta ad uscire. Un Partito Democratico che ha gli organismi dirigenti ad ogni livello ma che non riesce a decollare.
E dopo un anno continuo a chiedermi come si possa voler bene al Partito Democratico. Ma la delusione post elettorale, sommata a tante altre piccole delusioni mi fa ancora essere lontano dalla soluzione.
Come il protagonista del romanzo di Buzzati “Il deserto dei Tartari” sono stato rapito da un partito che sembra immobile e immerso nella routine politica, che si sveglia solo quando vede il nemico all’orizzonte per poi tornare ad assopirsi. Tuttavia come il tenente Giovanni Drogo, che non riesce a distaccarsi dalla Fortezza Bastiani, anche io non riesco a distaccarmi dal Partito Democratico.
Non so se sia amore, o se invece sia solo un calesse (citando Troisi), ma è sicuramente voglia di partecipazione. Partecipazione che viene a mancare quando le decisioni e le linee politiche vengono decise in luoghi “altri” rispetto a quelli ufficiali. La politica delle pizzate, delle cene, degli aperitivi ha portato il PD ad essere un partito che seleziona i candidati, la classe dirigente, gli esigui programmi politici, tra un piatto di malloreddus e il maialetto arrosto, tra una pizza ai funghi e una tartina alla bottarga. La differenza tra esserci o non esserci, pesare o non pesare, esprimere le proprie posizioni o stare in silenzio, passa per questi luoghi più tendenti all’enogastronomia piuttosto che alla discussione politica.
Ma siccome l’amore, come si dice, è cieco, e aggiungo pure un po’ stronzo, prima o poi uscirò da questa sorta di apatia politica in cui sono precipitato dopo anni di intenso impegno nella politica locale, nella politica giovanile e soprattutto nella politica universitaria.
Mi sento però di suggerire alcuni punti che potrebbero risvegliare il “sentimento” verso il PD:
a) Scordiamoci la superiorità morale della Sinistra. È un presupposto essenziale per fare un’analisi seria su ciò che è successo in questi anni. Se Berlinguer poteva alzare lo stendardo della Questione Morale, ora non possiamo più farlo. Non possiamo più trincerarci dietro l’espressione “compagni che sbagliano”. I compagni che sbagliano devono essere puniti. Che differenza passa tra un sindaco PD che fa i viaggi all’estero pagati dalla Provincia con la propria amante e un sindaco del PDL che fa altrettanto? O quei circoli PD campani che hanno tra i tesserati noti esponenti della Camorra e i deputati PDL che hanno rapporti con la Mafia? Mi spiace, ma io non noto nessuna differenza. Quindi è necessario partire da un mea culpa profondo, da una pulizia nel partito a tutti i livelli (locale e nazionale), per cercare di “tornare tra la gente” a testa alta.
b) Programmi chiari e rinnovamento vero. La vecchia formula “rinnovamento nella continuità” è sempre risuonata alle mie orecchie come metafora di fregatura. Lo sospettavo quando militavo nella Sinistra Giovanile, ne ho avuto conferma proseguendo nella militanza all’interno del Partito. Cooptare la classe dirigente come avvenuto recentemente permette solamente alla “vecchia classe” di continuare a prendere decisioni mascherandole come decisioni prese dai “giovani”. Non me ne vogliano i tanti amici e compagni giovani che lavorano nel partito con impegno e onestà. E nella critica mi inserisco anche personalmente, perché tutti noi abbiamo la responsabilità di non essere riusciti in questi anni a distaccarci da “padrini” e “padroni”, a trovare delle idee politiche originali, di prendere in mano il Partito e di dire qualche “no” a chi ci chiedeva di eseguire senza spiegazione. La questione è dirimente per il futuro: chi dovrà fare le cose, e cosa si dovrà andare a fare. Su entrambi gli interrogativi apriamo una discussione, quantomeno sul piano locale, visto che gli alti livelli ci sono preclusi.
c) Siamo minoranza culturale e politica nel Paese. Forse in questi anni non ce ne siamo accorti, ma vent’anni di berlusconismo hanno modificato e plasmato in maniera forte il DNA antropologico degli Italiani. Sia quelli che votano a Destra che quelli che votano a Sinistra. Il berlusconismo ha invaso anche i partiti della sinistra, che rischiano di restare offuscati dall’odio verso una persona tralasciando che attorno a quella persona c’è un forte consenso popolare. La sinistra non può appaltare l’opposizione a giornalisti e comici. Il “Travaglismo” è un “Aventino mediatico” nel quale molti militanti e simpatizzanti della sinistra si rifugiano in mancanza di posizioni concrete e vere da parte del più grande partito di opposizione. La cultura e la politica della sinistra devono tornare ad essere popolari, le élite intellettuali (l’intellighenzia) ci hanno portato dove siamo ora. È inorridente sentire che il segretario nazionale giustifica la sconfitta del candidato PD alle primarie pugliesi dicendo “La gente non ci ha capito”. Forse ci ha capito e ha scelto di votare diversamente. Riprendiamo ad occuparci di istruzione, di lavoro, di cultura, occupandoci dei problemi veri e non rincorrendo i temi che una maggioranza creata intorno ad uomo solo detta sull’agenda politica.
Penso che questi tre punti non siano esaurienti, e forse addirittura disordinati, ma riflettono la mia condizione personale di iscritto e militante, oltre che quella di tanti altri giovani che sarebbero disposti a partecipare ma che in attesa di “schiarite” preferiscono stare fuori. Noi che siamo “dentro” abbiamo la responsabilità di non farli arrivare all’interruzione dell’amore per la politica e per il PD evitando che possano arrivare a dire la frase lapidaria di Rhett Butler in Via col vento (interpretato dal mitico Clark Gable): “Francamente, me ne infischio…”.