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martedì 11 agosto 2009

Sardara: l'utilizzo dello spazio agrario


Lo spazio agrario in Sardegna tra Settecento e Ottocento è dominato dalla biddazzone o viddazzone, cioè l’insieme della terra destinata all’aratura.

Questa ampia porzione di territorio era situata solitamente in prossimità del villaggio ed era contrapposta al paberile, la terra che veniva destinata al pascolo, dal quale era separata dalla cosiddetta frontera, ovvero una siepe o dei pali che segnavano il confine. All’interno della biddazzone erano ritagliati alcuni spazi per il pascolo degli animali da lavoro (pradu de siddu, pradu de s’egua, segada de sa jua).
L’assegnazione al contadino del suo terreno da coltivare avveniva subito dopo il raccolto e si procedeva con l’estrazione a sorte. Successivamente si doveva liberare il terreno dal bestiame al pascolo e poi poteva avvenire la definitiva presa di possesso.
Una parte del territorio era diviso in tanche, cioè dei terreni chiusi da muretti a secco o siepi, che però potevano essere soggette all’abbattimento delle chiusure qualora fossero ricadute nell’ambito della viddazzone.
I terreni destinati al pascolo erano suddivisi in padru per il bestiame ammansito e in saltu per il bestiame rude. Ma gli sconfinamenti erano frequenti e spesso il bestiame andava finire sui terreni coltivati danneggiando il raccolto e scatenando le furiose e spesso sanguinose liti fra contadini e pastori.
Le tecniche di coltivazione utilizzate nell’isola erano ancora arcaiche: i contadini non conoscevano i benefici dei concimi e i mezzi di lavoro erano inadeguati. Molti contadini utilizzavano ancora la tecnica del bedustu, che consisteva nell’abbruciamento delle stoppie sui terreni nei quali si era seminato l’anno precedente.
Poco praticata era invece la tecnica del berenile, cioè la coltivazione di un terreno alternata a uno o due anni di riposo. Questa tecnica, seppur più dispendiosa di energie, aveva rese nettamente superiori al bedustu: 10 a 1 contro 2 a 1.
Come è intuibile la produzione granaria era il perno dell’economia agricola isolana: si può affermare che, nonostante le variazioni dovute a carestie e condizioni meteorologiche avverse, la produzione media di grano si aggirava per tutto il settecento a circa 1 milione e mezzo di starelli, salendo a circa 2 milioni nel secolo successivo. Per l’orzo invece la produzione si stabilizzò tra i 400 mila starelli e i 500 mila, con la differenza rispetto al grano che questo cereale veniva tenuto quasi interamente all’interno dell’isola sia per l’alimentazione del bestiame che per gli abitanti.
Ad ogni raccolto seguivano alcune operazioni fondamentali di imposizione regia, mutuate dal sistema spagnolo, che stabilivano un controllo sulla produzione e allo stesso tempo regolavano il mercato interno e le esportazioni: la consegna, con la quale si eseguiva una ricognizione accurata del grano ammassato nei magazzini di varia proprietà (baroni, prebendati, canonici, Monti granatici); l’insierro, ovvero la quantità di granaglie che veniva obbligatoriamente immagazzinata a favore delle città e la denuncia, che rappresentava invece la dichiarazione dei diversi produttori sulla variazione delle scorte dopo la consegna con la giustificazione delle variazioni in aumento e in diminuzione.
Infine dall’autorità pubblica veniva fissato il cosiddetto afforo ovvero il prezzo di imperio del grano per il mercato interno. Per le esportazioni era invece necessario pagare i diritti di sacca, anche questi mutuati dall’ordinamento spagnolo nel quale però erano dei permessi gratuiti per l’esportazione, che nel periodo sabaudo divenne una vera e propria tassa, anche abbastanza gravosa.
Il villaggio di Sardara aveva a disposizione 3500 starelli per la biddazzone, il prato era di 1000 starelli, i terreni incolti ammontavano a 3500 starelli, che corrispondono ai terreni del salto di Monreale, di cui 1500 starelli si considerano prato per il bestiame domito, e gli altri 2000 per il paberile a pascolo per il bestiame rude, inoltre esistevano regole precise per i diritti collettivi e ademprivili su questo salto, ad esempio per il legnatico (in particolare corbezzolo e lentischio). Boschi e selve rientravano tra i 3500 starelli incolti. Nella parte che alternava viddazzone e paberile si pagavano i diritti feudali in granaglie e denaro, e per gli anni a pascolo rude il deghino sulle pecore e lo sbarbaggio dei porci.
Roberto Ibba

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