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sabato 23 aprile 2011

Beni Arribausu, di Gianni Loy


“Beni arribausu”. E’ così che, ieri, il comandante di un volo Ryanair proveniente da Barcellona, dopo l'immancabile musichetta che segnala la puntualità del velivolo, ha salutato i passeggeri che si accingevano a sbarcare.
Niente di male, se non le risatine autoironiche di alcuni degli indigeni che facevano rientro in patria. Che mi ha fatto avvertire quella fastidiosa sensazione che conosco bene. Il fatto che l’utilizzo della lingua sarda continui a costituire, nel bene e nel male, un’evenienza meritevole di sottolineatura. Fastidiosa sensazione che sono accostumato ad avvertire spesso, perlomeno tutte le volte che conoscenti, o semplici passanti, di fonte al mio bambino di cinque anni che parla sardo, si incuriosiscono. E spesso commentano.
Sono per lo più commenti positivi. La cosa, simpatica la trovano. E magari anche ben fatta e meritoria. Ma, però, senza rendersi conto del fatto che quel piccolo bambino finisce per essere considerato un fenomeno da baraccone. Ed io che cerco di proteggerlo dalla curiosità.
Roba da pazzi. Doverlo proteggere dalla curiosità causata nientedimeno dal fatto che la sua lingua materna è quella che da secoli di padre in figlio, di madre in figlia, in quest’isola, bene o male, tramandati si sono. E da un po’ rifletto sulla risposta che dovrò dargli quando mi chiederà, la cosa mi sembra quasi fatale ma prego perché non avvenga, perché mai la gente si stupisca del fatto che parli con la lingua che è stata dei suoi avi.
Quel pilota, non so chi fosse, è solo uno dei tanti che trovano simpatico salutare un conoscente, anche casuale, con una espressione della sua lingua. Peraltro, veniva da un paese dove ogni comunità che possieda una lingua, la usa comunemente a partire dagli atti ufficiali della sua comunità. Cioè, per esempio, un sindaco si esprime negli atti ufficiali, scrive, da il benvenuto ad un ospite, in catalano piuttosto che in maiorchino, in valenciano piuttosto che in gagliego o in lingua euskadi. Cioè, per capirci, è come se il dottor Emilio Floris, o chi sarà il suo successore, intervenisse in lingua sarda in Consiglio comunale o in un’occasione di una cerimonia pubblica. Da sghignazzarsi.
Risatine, magari battute e molto sarcasmo. Elio Tullio Arthemalle a nozze ci andrebbe!
“Beni arribausu”. Si. Siamo proprio arrivati, arrivati siamo! Ma al capolinea! Po unu scimporiu, che però è l’aver perso l’abitudine, per molti, per troppi, di trovar normale parlare la propria lingua e di stupirsi quando ce la tirano addosso. Come se fosse vergogna. Come ci hanno insegnato le nostre madri, in su celu sianta, che quando chiedevamo loro un orangio ci rispondevano che se lo dicevamo in italiano ce ne davano una titula.
Così che abbiamo imparato a dirlo in italiano. Nel senso della lingua, ma anche nel senso metaforico di quell’ombra del nostro passato che non riusciamo a scrollarci di dosso, per terminare finalmente, dopo secoli, la trasformazione di un baco che pretende, o si illude, di diventare farfalla. Magari, quando sarà più facile manipolare in vitro le cellule dei nascituri, quanti sardi, diciamola la verità, non sceglieranno di scartare gli embrioni che promettono bambini e bambine bassi/e e scuri/e?
Una giunta regionale che non ci è toccata in sorte, ma che scelto abbiamo, più o meno consapevolmente, è buona interprete di questo complesso diffuso come gramigna dai campidani alle barbagie, anche se non gradi di intensità notevolmente differenti. Ma c’è anche da dire che la sudditanza cui mi riferisco si può esprimere anche in lingua sarda. Non tanto perché ha voluto festeggiare senza risparmio i 150 anni dell’Unità d‘Italia che, dobbiamo ammetterlo, un poco ci toccava, quanto per il fastidio che prova verso quella folle idea di festeggiare un avvenimento che ci ricorda una possibile identità. Che la prima volta che è stata fatta per davvero, su a casteddu ‘e susu, con una coinvolgente ricostruzione storica, è stato un bagno di folla e di entusiasmo che non si è mai più rivisto dalle nostre parti.
Forse l’anno prossimo neppure vacanza nelle scuole, al massimo ci lasceranno stappare una bottiglia di birra e ci concederanno, bontà loro, una piazzetta per un paio di trallalera. Così, tra due anni, avremmo di nuovo una fusione perfetta.
Ma il problema, in fondo, non è la lingua, ma il nostro atteggiamento rinunciatario ed teso all’omologazione (i pochi indomabili resistenti mi perdonino - non sto parlando di loro). Mi chiedo, se così stanno le cose, con quale forza potremo rilanciare l’economia, realizzare infrastrutture, costruire un sistema produttivo, tutelare i nostri interessi, far crescere i nostri figli, accettare la sfida internazionale che ci piove addosso e che potrebbe persino essere un'opportunità. Mi chiedo se non sia proprio possibile recuperare quel tanto di orgoglio che ci faccia desiderare di essere protagonisti della nostra storia.
Sì. Ridiamoci pure su. Aggiungiamo un’altra pièce a quel teatro sardo forse divertente, ma alimentato da un’autoironia così soffocante da farci sospettare che contenga anche buone dosi di auto-disistima.
“Beni arribausu”. Povero pilota, ignaro del fatto che sono ancora troppi, tra di noi, quelli che ancora non hanno neppure deciso di partire.
Da http://www.sardegnademocratica.it/culture/beni-arribausu-1.19878

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