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martedì 29 marzo 2011

UN MODESTO CONTRIBUTO SULLE CELEBRAZIONI PER L’UNITA’ D’ITALIA

Nell’interessante articolo di Roberta ho osservato con piacere alcuni aspetti degni di approfondimento. I sardi non hanno mai preteso che nel curricolo dei programmi scolastici sia previsto l’insegnamento della loro storia, questo è vero e molto grave ma è anche segno evidente di come lo stato centrale forse ancor prima dell’unità festeggiata abbia sempre cercato, con successo, di nasconderla; del resto la scuola è “statale”. A cosa servirà mai questa storia? Forse ad intrattenerci tra le ore tediose di matematica e grammatica? O non servirà magari per cercare di creare una coscienza di appartenenza che ci faccia sentire davvero parte e padroni del nostro territorio e del nostro destino? E’ vissuto nella seconda metà del 1700 un poco conosciuto cappellano luterano del reggimento svizzero che operò in Cagliari dal 1773/1776 e di cui nel 1899 ne pubblicarono Notizie dalla Sardegna; in questo libro è riportata una sua lettera inviata ad un amico tedesco dove dopo avergli raccontato che il Fara e il Vico scrissero in maniera monumentale la Storia della Sardegna aggiunge “che si trattava di opere assai rare perché gli spagnoli prima e i piemontesi appena dopo la sua pubblicazione ne hanno ritirato tutti gli esemplari per strappare dalla memoria del popolo i privilegi che in essa sono distesamente menzionati”. http://www.sardegnacultura.it/documenti/7_87_20060731130058.pdf Il contesto di collaborazione citato da Roberta bisognerebbe vederlo alla luce dei moti antifeudali guidati da G.M. Angioj, come noto soffocati nel sangue. Carlo Felice o Feroce come lo ebbero scherzosamente ribattezzato fu un altro sovrano illuminato, quando ancora viceré raccomandò di non mostrare pietà nel reprimere le rivolte di Thiesi e Santulussurgiu del 1800. Ricordo che il termine reprimere non significava certo “arresti domiciliari”. Altro contesto di collaborazione lo si conobbe durante il tentativo di rivolta dell’avvocato Cadeddu al tempo della crisi economica del 1812 (“s’annu doxi” anno di terribile carestia di cui si ha ancora oggi memoria, l’anno prossimo ne ricorre il bicentenario…) nota come la congiura di Palabanda, soffocata nel sangue anche questa. A precedere l’unità d’Italia per noi sardi fu la rinuncia degli antichi diritti derivanti dall’essere Regno di Sardegna e sanciti dall’accordo di Londra. La fusione perfetta del 1848, in concomitanza con gli eventi della prima guerra di indipendenza, come noto fu richiesta al Re dai rappresentanti degli stamenti di alcune delle città sarde più importanti, erano d’accordo i più noti intellettuali sardi. E’ altrettanto noto come pochi anni dopo diversi intellettuali, visti i risultati, criticarono aspramente tale scelta (tra i quali G. Asproni e G.B. Tuveri). Riguardo al Bogino ministro per gli affari di Sardegna, sembra che davvero egli sia stato un riformatore affascinato dalle idee illuministe. Vero è anche che i sardi di quel tempo, e anche di quello successivo, del Bogino avevano un'altra opinione forse perché ne sperimentarono la sua “bontà”. Ancora oggi, per augurare ogni male si esclama “anca ti currat su Buginu!”. Pare che la parola fosse in realtà “su bocinu” il boia, modificata in onore del conte, illuminato si, ma molto incline all’uso del cappio. Se siamo stati storicamente abituati a pensare di essere sempre stati in condizione di subalternità e sudditanza evidentemente questo è il risultato dell’educazione che abbiamo e continuiamo a ricevere. L’insegnamento (negato) della nostra storia ha avuto se non proprio tale obiettivo, ha in ogni caso conseguito tale risultato. Vi risulta che a scuola si racconti la storia ultramillenaria dell’età dei nuraghi? O quella giudicale durata circa cinquecento anni? Io ho due figli di 12 e 13 anni e mai, dico mai è stato detto loro per quale motivo il 28 Aprile, die de sa Sardigna, si fa festa, che vergogna! Come altro dovrebbe sentirsi un popolo al quale si continua a negare, a sua insaputa spesso, il diritto alla conoscenza della sua storia. Come pensate che si senta, ad esempio, un falco, se lo si fa vivere in cattività in un pollaio, e gli si nasconde sa sua vera natura? Vogliamo anche parlare della questione lingua? Come pensate avrebbero reagito per esempio i toscani se avessero tentato di convincerli anche a suon di botte che la loro lingua era solo “àliga” e simbolo di rozzezza e povertà? E’ possibile che per apprendere (giustamente) l’italiano si sia dovuto denigrare, offendere, disprezzare la lingua sarda (e non solo) e quindi l’intima essenza di un popolo? Su questo aspetto ricordo che lo stato italiano è stato recentemente denunciato all’Onu per violazione dei diritti dell’uomo (e questo nonostante l’art. 6 Cost., la L. 482/99 e la L.R. 26/97). Si ricordino le parole di Gramsci sulla lingua. Come mi è già capitato di scrivere in questo stesso blog, ci hanno tagliato la lìngua, nascosto storia e cultura e lasciato in cambio un po’ di folklore, basta vedere quali sono le manifestazioni considerate più “rilevanti” in Sardegna. Cambiando per un attimo argomento, se passerà il piano sul nucleare (mai Deus ddu bollat!) dove pensate che sorgeranno le centrali ora che abbiamo anche un bel cavo “incingiau pròpiu s’àtra dii”, che ci collega al continente. Provate a ragionare al posto di chi sta a Roma, qual è la regione che più di altre si presta? Sia geograficamente, demograficamente, geologicamente che politicamente. Del resto non sopportiamo già il 75% delle servitù militari? Sul federalismo concordo con Roberta, è un’occasione storica, ma solo se non si limiterà come oggi è ad una semplice questione di fiscalità, ma ci permetterà di essere noi stessi, ognuno con le sue specificità di lingua (con l’italiano lingua di tutti, ma si veda la citata L. 482/99), storia, tradizioni, ognuno con pari dignità e pari rappresentatività, anche in Europa e fare così un’Italia più giusta e moderna. Se è vero come io credo che la subordinazione economica è figlia di quella culturale e quindi politica, forse solo questo basterebbe a capire come mai noi oggi siamo tra le regioni più povere d’Italia. Lo stesso piano di Rinascita miseramente fallito era frutto di un modello economico e culturale a noi estraneo imposto da altri. Certamente in questi 150 anni di storia sono migliorate enormemente le nostre condizioni di vita, cosa sarebbe successo se fossimo rimasti con la Spagna non lo sappiamo, probabilmente avremmo forse seguito un destino analogo, che so, a quello delle Baleari (ma almeno la nostra lingua starebbe molto meglio vista la politica della Spagna post franchista). Se fossimo stati ceduti alla Francia come voleva fare il Piemonte, probabilmente avremmo seguito un destino simile a quello della Corsica, e ora parleremmo anche il Francese come Cavour e la casa Savoja (che ironia del destino), se fossimo rimasti con l’Austria come era stato deciso in un primo tempo dagli accordi Utrech del 1713 parleremmo tedesco. Se invece la battaglia contro i catalani del 1419 l’avessero vinta gli Arborea chissà cosa mai saremmo diventati. La storia, ci dicono gli storici, non è fatta di ma e di se e le analisi si fanno alla luce dei fatti accaduti. A proposito per quei pochi o molti che leggono questo blog e che hanno figli in età da lavoro, posso permettermi di chiedere se i loro figli stanno lavorando e se sì dove? Concludo dicendo viva l’Italia, ma quella che rispetta i diritti di tutti, un’Italia in gran parte ancora da costruire e spero che il PD di Sardara, nel suo piccolo vi voglia concorrere. Quindi appuntamento al 28 Aprile con la speranza che lo si festeggi con eguale enfasi ed entusiasmo. Giampaolo Pisu

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Concordo con il tuo ragionamento Paulu Pisu, ma in 50-60 anni non è cambiato nulla, come dimostrano questi due estratti su discorsi di due grandi pensatori sardi:
"Sentiamo che il popolo sardo, come i popoli venuti ultimi alla civiltà moderna e già fattisi primi, ha da rivelare qualcosa a se stesso e agli altri, di profondamente umano e nuovo" E. Lussu - ottobre 1951
" ...Ma ciò che più ci avvilisce è il fatto che l'Italia ha impostato tutta la sua politica economica e la pro­grammazione in termini chiaramente capitalistici, per cui qualsiasi intervento di «solidarietà» nazionale nei riguardi della Sardegna si risolve in un rafforzamento del neo-colonialismo che già ci soffoca. Diminuisce in altri termini la nostra libertà individuale e collettiva, a vantaggio dei nuovi feudatari industriali..." A.S.Mossa - giugno 1967

Daniele Tatti

Anonimo ha detto...

A mio parere qualcosa è cambiato almeno per quel che riguarda la consapevolezza che vedo sempre più spesso su certe questioni. Questo forse anche grazie all’effetto internet per il quale oggi passa molta “cultura” non approvata dal sistema, e bisogna dire che qualche tabù lo ha fatto cadere la lega, anche se di questa non si possono non condannare gli eccessi. L’essersi resi conto che ogni realtà territoriale ha le sue specificità culturali e che è un bene che queste si mantengano almeno per non essere fagocitati, ingùrtius, dalla cosiddetta globalizzazione. Ciò che non vedo sono i comportamenti coerenti da parte della classe politica/dirigente che spesso parla in una maniera ma agisce in altro modo. Mi riferisco per esempio al federalismo. Quello che vogliono far passare oggi in realtà è un federalismo/statalismo che fa “cagare” dal ridere, scusate l’espressione. Ridurre il tutto a una questione fiscale è davvero ridicolo e offende il vero senso della parola federalismo. Se si è tutti d’accordo che bisogna restituire ai territori quel potere che li porterà pian piano ad una maggior responsabilizzazione, non capisco il senso dei provvedimenti già approvati e in via di approvazione. Oramai da molti anni anche l’ONU ha sancito che le lingue minoritarie sono una parte fondamentale della ricchezza culturale dei popoli, non solo da proteggere ma anche da sviluppare, importante per le molte implicazioni in termini di sviluppo del senso di appartenenza ad una comunità/territorio che li porta ad una maggiore rispetto del territorio, maggior integrazione e quindi con fondamentali riflessi sull’economia. La psicolinguistica ha già da tempo dimostrato tutto ciò. Nonostante tutto si fa finta di niente e si lasciano morire anche grazie all’atteggiamento di molti “eruditi” intellettuali “monopolizzatori della cultura di valore” ma che ignorano magari la lingua minoritaria del territorio di appartenenza e che quindi li estranea da un contesto comunitario verso il quale sotto sotto magari nutrono, quando va bene, indifferenza se non disprezzo, magari bollando quel contesto comunitario come appartenente a sottocultura, sentimenti magari accuratamente occultati anche al loro come dire io “cosciente”. Qualcuno di questi tromboni lo sentiamo in tv e lo leggiamo nei giornali ogni tanto. Noi sicuramente produrremo di più e meglio e saremmo certamente più “italiani” di quanto, al di là della retorica di questi giorni, non ci sentiamo oggi. Ecco perché è importante essere più sardi/siciliani/calabresi/veneti, etc. Tutti con pari dignità e no fillus e fillastus cumenti seus oi.
Riguardo ai pensatori sardi da te citati, quanti lettori del blog, mi chiedo, soprattutto tra i più giovani, avranno letto “un anno sull’altipiano” (recentemente tradotto in sardo con il titolo “un’annu in guerra”) o conosceranno anche solo per sentito dire A. Simon Mossa?

Giampaolo Pisu