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sabato 14 aprile 2012

IN VIAGGIO IN SARDEGNA. SARDARA NELLE MEMORIE DI VALERY

Nel corso dell’Ottocento, una nutrita schiera di giovani rampolli delle più ricche ed influenti famiglie nobiliari europee, si muoveva in lungo e in largo per il ‘vecchio continente’ e in particolar modo in Italia; fin dagli inizi del XVII si compiva infatti una sorta di pellegrinaggio rituale verso il paese considerato il giardino d’Europa, la patria dell’arte e il luogo d’origine del cattolicesimo. Per pochi la meta di questi viaggi, estremamente lunghi e articolati, a volte densi di pericolose e avvincenti avventure era stata la Sardegna, e ancorché in pochissimi avevano lasciato una testimonianza scritta ti tale esperienza. L’Isola era stata quindi quasi del tutto ignorata dagli adepti del Grand Tour, quei giovani aristocratici, eredi di grandi fortune, artisti ed esteti che ritenevano vitale ed indispensabile compiere lunghi soggiorni nella penisola, in città dove avevano la possibilità di perfezionare il loro sapere. Di questi viaggi, Roma era meta fondamentale, con i suoi resti archeologici e le sue collezioni d’arte e d’antiquariato; seguivano poi Genova, Milano, Venezia, Bologna e Napoli, ma anche Pompei ed Ercolano, recentemente riscoperte. Ignoravano la terra sarda anche coloro che appartenevano ad un’altra corrente di viaggiatori, quella degli umanisti ed eruditi che vedevano nel del viaggio in Italia, l’occasione più proficua per la ricerca affannosa e indiscriminata di manoscritti e documenti d’archivio o per il reperimento di opere e oggetti d’arte che prendevano poi l’irrimediabile via dell’estero, favorendo così la nascita delle grandi collezioni straniere e depauperando irrimediabilmente il patrimonio artistico nazionale. A questa prassi erano legate le attività di artisti italiani e stranieri, che svolgevano il ruolo di guide o di intermediari per l’acquisto dei manufatti artistici, e soprattutto, per l’esecuzione di ritratti o di vedute e paesaggi italiani, dando così vita a un nuovo genere della pittura. Tra i pochi temerari che si spinsero fino alle coste dell’antica Ichnusa, compare anche Antoine-Claude Pasquin (1789-1847), noto con lo pseudonimo di Valery, francese, classicista, romantico e, per diletto, antiquarie. Il Viaggio in Sardegna è il secondo volume dell’opera complessiva dal titolo: Voyages en Corse, à l’île d’Elbe et en Sardaigne; il progetto originario, era quello di realizzare una vera e propria guida, un “Indicatore” che, similmente alla sua opera più nota, Voyages historiques et littéraires en Italie, pendant les anneés 1826, 1827 et 1828, ou l’Indicateur italien, avrebbe dovuto condurre i turisti nella visita di quella terra perlopiù sconosciuta, consentendo l’iniziazione di un pubblico più vasto all’originalità della sua letteratura, alle diversità della sua lingua e alla preziosità dei suoi ornati costumi e gioielli. Arrivato in Sardegna nella primavera del 1834, Valery vi soggiorna per un breve periodo compreso tra gli ultimi giorni del mese di aprile e i primi di giugno. Mentre in un primo momento come i suoi compagni, anche lui sembrerebbe interessarsi principalmente al patrimonio artistico e archeologico, sarà ben presto affascinato e rapito dal patrimonio umano, narrato con un’infinita messe di particolari. Ed è così che nel capitolo VII, quello dedicato all’ospitalità sarda, racconta della sua visita in paese, ospite del Cavalier Orrù e ricorda con queste parole il felice momento: “Ho cercato di descrivere le premure, la grazia dell’ospitalità corsa e certo non ho nessuna voglia di smentirmi; ma c’è in questa ospitalità qualcosa della vanità francese. L’ospitalità sarda ha tutto un altro carattere: è, se si può dirlo, più primitiva, più antica, più semplice, più universale. La Sardegna, che ha mantenuto il nome che aveva fin dai tempi eroici, conserva ancora un gran numero di tratti caratteristici che ricordano le virtù e i costumi degli antichi popoli. L’ospitalità è allo stesso tempo una tradizione, un gusto e quasi un bisogno per il Sardo. Il cavalier Orrù di Sardara, dal quale ebbi l’onore d’essere ricevuto, mi raccontava che il defunto conte suo padre, modello dei vecchi costumi sardi, per quanto vivesse in seno a un’amabile e numerosa famiglia (era stato sposato tre volte con persone giovanissime e aveva sposato le ultime due nella maturità e nella vecchiaia), era al colmo della gioia quando gli capitavano una dozzina d’ospiti e che era triste e di cattivo umore quando non aveva nessuno a cena; allora andava a invitare i vicini, oppure chiamava qualche passante per tenergli compagnia e bere insieme”. Successivamente, in una delle sue tappe dell’impegnativo ma appagante viaggio, apre il capitolo XLIII dedicandolo al villaggio di Sardara e prosegue così: “conta 2.100 abitanti, ottimi agricoltori. Una considerevole quantità di pietre vulcaniche ne ricopre il suolo, senza nuocere alla sua fertilità. La parrocchia ha qualche statua di un certo valore. Una statua di San Bartolomeo, in legno dipinto, sarebbe degna d’una cattedrale. La vecchia statua della Madonna delle Acque fu trovata nelle terme e una moderna statua in legno del Cristo fu commissionata dal simpatico e ospitale conte Orrù al frate Antonio Cano di Sassari, il Fidia di tutte le statue colorate e poste sugli altari delle attuali chiese della Sardegna. Una tomba recente suscita interesse ed emozione; è quella dell’ingegnere savoiardo Maréchal, morto a ventinove anni per una malattia contratta durante i lavori per la strada centrale: la tomba gli fu dedicata dai colleghi e dagli amici, come indica una semplice e commovente iscrizione. Un simile trapasso ha qualcosa di nobile; non è certo meno degno d’onore che morire in guerra: è lo stesso che perire sulla breccia, e nella maniera più utile agli uomini, dal momento che le strade contribuiscono potentemente al benessere e alla civiltà. L’antica chiesa di San Gregorio, considerata l’architettura maestosa della facciata, sembra risalire ai Pisani. Ho visitato le vaste rovine del castello di Sardara, chiamato Monreale. I suoi merli, le sue torrette dominano orgogliosamente la collina scoscesa alla quale ha dato il nome. Questo antico maniero dei giudici d’Arborea, uno dei meno rovinati e dei più storici della Sardegna, fu residenza dell’infanta donna Teresa, nel 1324, mentre suo marito, don Alfonso d’Aragona, assediava e poi occupava Cagliari; nel 1409 fu il rifugio del visconte Amerigo di Narbona, pretendente al giudicato d’Arborea, dopo la sconfitta subita da parte di don Martino il giovane. Sardara deve la sua reputazione soprattutto alle acque termali che, per quanto siano le più frequentate della Sardegna, mancano di uno stabilimento. Questi bagni sono formati da due specie di grotte buie e orribilmente sporche; al loro interno ho visto che i bagnanti, uomini e donne, stavano più o meno ammassati gli uni sugli altri, distesi sui brutti materassi che questa povera gente si era portata dietro. I ricchi fanno trasportare a casa loro, a Sardara, o in casa delle persone da cui alloggiano, l’acqua di cui hanno bisogno e che mantiene ancora tutto il calore, benché a cavallo ci voglia più di una mezz’ora di strada. Sembra che Sardara fosse l’antica Aquae Lesitanae, citata da Tolomeo. A occidente si trovava un’altra città romana chiamata Aquae Neapolitanae, menzionata nell’Itinerario di Antonino. Gli antichi, che hanno vantato le virtù delle acque minerali di Sardegna, sono arrivati ad attribuire loro proprietà favolose e strane, come quella di colpire di cecità i ladri e gli spergiuri nel caso fossero stati sottoposti alla prova di bagnarsene gli occhi”. Rileggendo attentamente le memorie del viaggiatore francese, si viene intensamente trasportati in una lontana ma ancor riconoscibile e fascinosa dimensione, a cui possono essere associati odori, sapori e ricordi di un passato ormai lontano che il paese, con la sua garbata ed elegante grazia conserva tutt’ora in maniera incondizionata. MARTA ONALI

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