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giovedì 16 settembre 2010

La piaga del lavoro irregolare. Perché succede?

Il lavoro irregolare (più conosciuto come ‘lavoro nero’) coincide con una prestazione d’opera da parte di un lavoratore al quale viene riconosciuta, in cambio, una retribuzione pattuita al di fuori di ogni previsione contrattuale (i contratti collettivi nazionali prevedono dei ‘minimi salariali’ e numerose altre garanzie).
Ma quel che è peggio è che egli, oltre a percepire una retribuzione più bassa, non è tutelato in caso di infortunio sul lavoro o di assenza per malattia, non vengono versati a suo favore i contributi assicurativi per la pensione e non avrà il diritto, al termine del rapporto di lavoro, ad una indennità di disoccupazione, di mobilità, di cassa integrazione, di maternità, ecc.
Perciò, oltre che guadagnare meno degli altri lavoratori, andrà più tardi in pensione e quando ci andrà percepirà una pensione ridotta, in caso di malattia dovrà assentarsi senza il diritto alla retribuzione e infine, se si infortuna, non avrà alcuna tutela e tornerà ad essere disoccupato, in molti casi con ridotta capacità lavorativa (a causa di possibili menomazioni permanenti).
Il fenomeno interessa la generalità dei lavoratori ma in modo particolare i giovani (perfino minori), le donne e gli extracomunitari. E’ maggiormente diffuso al Sud ma è presente in larga misura anche al Nord, seppure con cause e motivazioni differenti.
Oltre ai lavoratori, ad essere danneggiata è anche la libera concorrenza delle imprese.
E’ evidente che l’azienda che ricorre al lavoro nero ottiene dei risparmi nella gestione della propria impresa (riduce il costo del lavoro) e perciò potrà praticare dei prezzi più bassi quando venderà i beni o i servizi prodotti, causando in tal modo una situazione di concorrenza sleale.
Ne consegue che le imprese serie, per stare al passo, saranno obbligate (o almeno tentate) anch’esse ad abbassare il costo del lavoro, e la strada più facile e immediata è ancora quella del ricorso al lavoro ‘nero’. E così via in una spirale perversa e senza fine, nel solco dell’illegalità.
Inoltre vengono sottratte risorse al sistema previdenziale, con conseguenze negative per tutti i pensionati, quelli di oggi e soprattutto quelli di domani.
A fronte di questi comportamenti illegali (e immorali) a quali rischi va incontro l’imprenditore?
Intanto in caso di infortunio o di morte del lavoratore, il datore di lavoro (o il responsabile per la sicurezza da lui nominato) incorre in severe sanzioni penali e, in alcuni casi, è previsto anche il carcere.
Invece, in caso di verifica ispettiva con l’accertamento di lavoro irregolare, le sanzioni sono amministrative e possono ammontare a molte migliaia di euro (molto di più in caso di utilizzo di lavoratori extracomunitari clandestini o di sfruttamento del lavoro minorile).
Di conseguenza gli Uffici Finanziari, l’I.N.A.I.L., l’I.N.P.S., la Cassa Edile, ecc. procederanno per il recupero di quanto è stato evaso oltre alle sanzioni, gli interessi, ecc.
Tanti rischi a fronte di quali vantaggi? Quale è la posta in gioco?
Non c’è dubbio che spesso l’Azienda risparmia (anzi froda) parecchi soldi.
Ma, anche se può sembrare incredibile, in molti casi non ci guadagna nulla (o molto poco) e rischia moltissimo. Infatti, anche se la cosa sembra (apparentemente) inspiegabile, spesso gli imprenditori ricorrono al lavoro nero anche quando potrebbero beneficiare di importanti incentivi alle assunzioni e conseguire quasi le stesse economie ottenute con il ricorso al lavoro ‘nero’.
Intanto vediamo quali sono questi incentivi.
Ecco i principali.
L’impresa che assume un lavoratore a tempo indeterminato, disoccupato da almeno due anni, ha diritto alla esenzione totale dei contributi assicurativi fino a 36 mesi (nelle Regioni dell’ex obiettivo 1, Sardegna compresa).
In caso di assunzione di lavoratori in lista di mobilità, l’impresa non paga i contributi fino a quattro anni e, in caso di assunzione a tempo indeterminato riceverà un contributo economico pari all’importo dell’indennità che sarebbe spettata al lavoratore (se fosse rimasto disoccupato).
Un discorso analogo si applica per le aziende che assumono lavoratori in cassa integrazione o che usufruiscono degli ammortizzatori sociali ‘in deroga’.
Per i disoccupati che hanno fino a 32 anni e più di 50, è possibile la stipula di un “contratto di inserimento” (per un massimo di 36 mesi), con la riduzione della retribuzione e il pagamento dei contributi assicurativi pari a quelli degli apprendisti. Nelle Regioni con un alto tasso di disoccupazione femminile, Sardegna compresa, per le donne non è previsto alcun limite d’età.
L’apprendistato, il più ‘datato’ degli istituti contrattuali, è ancora il più utilizzato (e conveniente) dagli imprenditori. Possono essere assunti i giovani fino ai 30 anni per un periodo massimo di 6 anni (dipende dalla qualifica e dal contratto collettivo).
Nei primi anni la retribuzione sarà ridotta (rispetto alla retribuzione ‘piena’ di chi è qualificato) e i contributi assicurativi saranno corrisposti in misura percentuale, da un minimo del 1,5 % ad un massimo del 10% della retribuzione.
Esistono numerosi altri incentivi che favoriscono le assunzioni e che alleggeriscono gli oneri per i datori di lavoro (e che qui si omettono per ragioni di spazio).
In ogni caso i consulenti del lavoro sono bravissimi ad utilizzare le norme in vigore per ottenere ripetutamente (e legalmente) benefici, contributi e incentivi per molti anni per gli stessi lavoratori.
Ma allora perché ricorrere al lavoro nero anche quando non sembra giustificato da nulla, anzi quando tali comportamenti appaiono proprio da…sciocchi?
Il motivo sembra essere nei meccanismi che l’amministrazione finanziaria dello Stato ha posto in essere per scovare gli evasori fiscali. Infatti, esistono dei criteri che vengono applicati dagli Uffici delle Entrate per stabilire il volume d’affari ‘presunto’ da parte delle Aziende con l’applicazione di parametri che tengono conto anche (e soprattutto) del numero dei dipendenti. Quindi più dipendenti uguale (presumibilmente) più redditi, e più redditi uguale (certamente) più tasse….
Ne consegue che sarà interesse di intende evadere le tasse, dimostrare di avere pochi dipendenti per rendere più credibile la dichiarazione di un volume d’affari ‘ridotto’ rispetto al reale.
Da qui si capisce che gli interessi in gioco sono tali da giustificare il lavoro sommerso anche quando questo appare , in sé, completamente ingiustificato.
Per completezza c’è da dire che il ‘lavoro nero’ ha due facce.
La prima è quella che si presenta nelle Regioni più povere d’Italia, dove la necessità di ridurre il lavoro viene ‘giustificata’ da un tessuto economico più povero, con aziende in perenne difficoltà, che non riescono a far fronte ai maggiori costi dovuti a problemi locali che creano condizioni di svantaggio. Aree con una povertà diffusa, dove i livelli di disoccupazione sono tali da costringere i lavoratori ad accettare condizioni di lavoro e salariali ai limiti della sussistenza, con gravi conseguenze per la sicurezza, la qualità della vita e la dignità delle persone.
L’altra faccia del fenomeno è più evidente nelle Regioni più ricche del Nord.
Qui le cause del lavoro ‘nero’ sono in parte le stesse di quelle che si verificano al Sud, con alcune motivazioni aggiuntive con le quali si cerca (ancora) di ‘giustificare’ tali comportamenti, ossia la competitività, la globalizzazione, la insostenibilità del costo del lavoro, ecc.
Ma c’è una importante differenza che riguarda anche gli stessi lavoratori, rispetto a quelli del Sud: il fenomeno dei lavoratori con molta esperienza ed elevata professionalità che prestano la propria opera ‘in nero’ quando sono ormai pensionati (e non hanno alcun interesse a dichiarare il reddito perché si vedrebbero ridurre la pensione) oppure quando già svolgono regolare attività lavorativa con la Ditta ‘principale’ ma integrano il proprio reddito con un secondo e perfino un terzo lavoro. Un’altra particolarità riguarda la maggiore concentrazione di lavoratori extracomunitari, che subiscono più di altri le conseguenze del lavoro irregolare.
Insomma, due aree dell’Italia molto diverse ma con la stessa piaga. Una piaga che ha conseguenze nefaste per l’intera economia nazionale
Forse è inutile chiederci perché il fenomeno del lavoro nero sia così esteso, dal Nord al Sud dell’Italia, isole incluse, e per quale motivo non si riesca a contrastarlo efficacemente..
E sarebbe ipocrita non dare la risposa più ovvia, immediata e scontata: l’evasione conviene a tanti, anzi a tantissimi. Anche se non a tutti, ovviamente.
E gli unici a cui non conviene proprio, è evidente, sono quella parte più esposta e debole del mercato del lavoro, ossia quei lavoratori che non possono contare su altro reddito che quello che deriva dall’unico (e spesso precario) posto di lavoro dipendente.
r.m.

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