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mercoledì 1 settembre 2010

Il paese che vorrei

Ho sempre pensato che il posto migliore in cui vivere è quello in cui già viviamo, e che per questo vale la pena di impegnarci giorno per giorno per migliorarlo.
Ma ci sono momenti in cui non si è più sicuri di niente, i propri convincimenti sembrano vacillare ed i pensieri volgono al pessimismo ed alla rassegnazione.
E’ con questi stati d’animo che in un torrido pomeriggio d’agosto osservavo, dalla strada che conduce a Santa Maria Acquas, le evoluzioni di aerei ed elicotteri che tentavano disperatamente di arginare le fiamme che stavano divorando il Monreale. Alla fine un’enorme distesa di cenere e di colline annerite. Un disastro. Ora, pensavo, ci vorranno decenni per riavere gli olivastri, i lentischi, i mirti e le querce nane che si stavano lentamente riprendendo (da altri incendi) e molti anni per ripopolare quell’area con la piccola fauna originaria.
A completare quel quadro di tristezza ho indugiato sull’albergo termale del Comune, muto testimone di quello scempio, tristemente chiuso, senza ospiti ne dipendenti.
Infine, al rientro, ho percorso le strade polverose del paese avendo cura di evitare le buche e le trincee aperte da mesi per interminabili lavori in corso, ai margini di piazze e marciapiedi sporchi e trascurati da settimane…
Mi chiedevo se le cose potevano essere diverse, se tutto ciò era inevitabile (e se il mio umore poteva essere diverso…).
Forse delle fasce antincendio più larghe di quelle esistenti ed altre nuove da realizzare potevano limitare i danni arrecati al Monreale e il fuoco non avrebbe percorso un’area così estesa. Forse un sistema di protezione civile meglio coordinato e capace di impiegare al meglio i mezzi e il personale di vari enti (Protezione Civile, Regione. Provincia, Comune). Forse un più efficace impiego dei volontari ai quali non può essere chiesto di improvvisarsi ‘pompieri’, e la cui azione, per essere efficace, andrebbe supportata da un minimo di addestramento.
Sono tanti i dubbi, anche perché tutti ci rendiamo conto di quanto sia difficile fare i conti con la furia di un incendio (e con la stoltezza degli incendiari).
In quanto all’albergo, ho qualche certezza in più. Certamente oggi sarebbe ancora aperto, con tanti ospiti e i dipendenti al lavoro, se solo fosse stata attuata una previdente programmazione amministrativa che avrebbe potuto dar luogo ad un cambio di gestione indolore.
Allo stesso modo, un’adeguata programmazione dei lavori pubblici avrebbe permesso di terminare i lavori prima dell’estate, in modo da non presentare le strade del paese nelle condizioni in cui ancora si trovano a visitatori, turisti, emigrati di ritorno per le vacanze.
Quanto ci è rimasto del ‘paese arancione’ di qualche anno fa? Facciamo ancora parte della ristretta cerchia dei paesi più ‘caratteristici’ della Sardegna? Chissà.
I casi citati ci dicono che spesso la sfortuna o le avversità non c’entrano (o c’entrano poco) e assume invece fondamentale importanza l’azione delle persone e delle Amministrazioni Pubbliche (di ogni livello) deputate allo svolgimento di determinati compiti, anche se bisogna riconoscere che le difficoltà esistono e che in molti casi chi amministra davvero non può fare di più.
Questo stato di cose potrà cambiare una volta che andrà ‘a regime’ la Legge che impone ai Comuni con meno di 5000 abitanti di associarsi o di formare delle Unioni di Comuni’?
Per meglio dire, il nostro Monreale sarà più protetto, le nostre strade più pulite, i lavori pubblici meglio programmati, i servizi pubblici resi più efficienti?
Ciò che accadrà per certo è che Comuni piccoli e piccolissimi dovranno delegare ad un organo sovra-comunale buona parte delle politiche locali.
Ma allontanare il centro politico-amministrativo non allontanerà un po’ anche i cittadini dalle istituzioni locali?
Il municipio è un riferimento anche fisico, concreto, a cui finora i cittadini hanno sempre guardato ed a cui si sono sempre rivolti.
Oggi, al contrario, è più che mai sentita l’esigenza di nuove forme di partecipazione e di ‘avvicinamento’ dei cittadini alle istituzioni e si rende necessario un rapporto più diretto tra amministratori e amministrati da cui scaturiscano nuove forme di responsabilità per entrambi.
Con la strada intrapresa si riuscirà forse a conseguire qualche risparmio. Ma siamo proprio sicuri che si tratti solo di un problema di riduzione della spesa? E se i problemi fossero di altra natura?
Vari Governi ci hanno abituato all’idea che si debba passare necessariamente attraverso una riduzione della spesa degli Enti Locali anche riducendo il numero e i compensi degli amministratori locali.
Ma prima ci si sarebbe dovuto chiedere se davvero il problema sia quello di far spendere meno agli enti locali o invece obbligarli (indurli) a spendere meglio.
Mi convince di più la seconda ipotesi e lo voglio spiegare con alcune cifre messe insieme guardando all’esperienza di altri Paesi (anche se qui mi limito ad uno solo).
Dopotutto, guardare a ciò che fanno gli altri è sempre un’occasione straordinaria per imparare (oltre che un atto di umiltà).
L’Italia ha circa 8.000 Comuni e 119.000 Consiglieri Comunali.
La Francia ha circa 37.000 Comuni e 500.000 Consiglieri Comunali.
L’Italia e la Francia hanno circa lo stesso numero di abitanti, circa 60 milioni.
La pressione fiscale pro-capite in Italia è di 7350 euro, quella Francese è di 7400 euro.
Ma la restituzione in termini di servizi pubblici ai cittadini è di 8023 euro in Italia mentre è di ben 10776 euro in Francia.
Cosa dicono queste cifre? Essenzialmente che esiste un forte divario di efficienza della macchina amministrativa dei due Paesi. E sono cose che si vedono e si possono apprezzare. Infatti in Francia (ma si può dire di tanti altri Paesi europei) la ‘cosa pubblica’ appare amministrata nel modo migliore.
Il verde pubblico è ben curato, le strade e le piazze ben tenute, i mezzi di trasporto efficienti, i servizi sociali e quelli sanitari sono all’avanguardia.
In Italia purtroppo non possiamo dire altrettanto, anche se ci sono alcune Regioni che riescono a fare meglio e si avvicinano a ‘standard’ più europei.
Insomma, non è la ‘quantità’ di spesa pubblica ciò che conta, ma il rapporto tra la spesa ed il ritorno in termini di servizi ai cittadini, in una parola dell’efficienza della spesa pubblica.
E’ chiaro (e giova ripeterlo), che meno spesa pubblica non significa più efficienza e che perciò l’attuazione della riforma del governo Berlusconi non potrà migliorare di molto le cose.
Si può dunque sostenere che spendere di più (ma bene) significa amministrare meglio?
Certo, purchè si accetti di ragionare sulla base di una diversa impostazione.
Ad esempio, se l’amministrazione pubblica spende bene i propri soldi e li finalizza a migliorare il paese, per prima cosa migliora la qualità della vita di chi ci vive. Se poi non si limita ad abbellirlo ma anche a creare strutture per l’accoglienza, lo sport, il tempo libero e gli spazi culturali, sta facendo un investimento che, se fatto con oculatezza, avrà un ritorno in termini di visitatori, turisti e potrà essere di stimolo per l’insieme delle attività produttive (il commercio, l’agricoltura, l’allevamento, l’artigianato), contribuendo a creare sviluppo e occupazione. Una comunità più ricca, a sua volta, potrà contribuire (anche finanziariamente) ad un ulteriore miglioramento del paese. Insomma una politica lungimirante capace di avviare un circolo virtuoso che si autoalimenta.
Ma è così difficile intraprendere questa strada? Si e no, dipende.
Solo una comunità partecipe e motivata può riuscirci, a cominciare ovviamente dai propri amministratori.. Una comunità che ‘si vuole bene’, che crede nelle proprie potenzialità e che fa buon uso della propria autodeterminazione, deve riuscirci. Innanzitutto con il confronto e la discussione. Sul centro storico e lo sviluppo urbanistico, sulla cultura, lo sport, i servizi sociali, le opere pubbliche, il verde pubblico.
Si rende però necessario un approccio nuovo da parte di tutti noi, che si può sintetizzare così (con una frase presa a prestito): ‘sarebbe bene che non ci chiedessimo tutti cosa il proprio Paese può fare per noi, ma cosa ognuno di noi può fare per il proprio Paese’.
E’ un concetto che possiamo adattare alla nostra piccola realtà locale.
Capita a tutti di pensare al paese in cui si vive e di pensarlo come idealmente lo vorrebbe.
Se qualcuno mi chiedesse di fare un elenco delle cose più importanti di cui necessita il mio paese, non comincerei con un elenco di opere pubbliche o la richiesta di nuovi finanziamenti (servono anche quelli).
Chiederei che si affermi prima di ogni cosa una nuova consapevolezza, una nuova cultura e coscienza della ‘cosa pubblica’, l’idea che ciò che è di tutti appartiene in piccola parte anche a ciascuno di noi, perché siamo noi tutti, con il nostro lavoro e con i nostri soldi di cittadini e di contribuenti, ad aver reso possibile che la ‘cosa pubblica’ esista e della quale, proprio per questo, dobbiamo essere i più gelosi custodi..
Ma anche il motivo per cui non può esserci indifferenza e tantomeno rassegnazione, davanti alla distruzione di un incendio e alle mille cose che non vanno bene e che vorremmo cambiare.
roberto montisci

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